home NG Adventure Esperienza Denali, in Alaska alla conquista dello spirito libero della montagna.

Esperienza Denali, in Alaska alla conquista dello spirito libero della montagna.

Di Alessio Giachin Ricca*

 

Quando si sceglie una meta per una spedizione si ha difficoltà a individuare l’esatto perché della scelta “.

 

Alberto Bolognesi, guida alpina, in vetta al Denali, la montagna più ‘cool’ per gli alpinisti di un certo calibro, nel cuore dell’ Alaska selvaggia

 

È qualcosa che inizia a prenderti dalla pancia, per istinto ti senti pronto all’incontro con quella particolare montagna. Poi sale al cuore e piano piano ti innamori dell’idea, la pensi, la accarezzi, la sogni. Ti immagini solo, tu e la montagna. E parli con lei, apri la mente per percepire cosa ha da dirti, cosa ha da consigliarti. Solo in seguito l’idea prende forma nella testa, nella tua parte razionale. Allora sai che ti devi preparare, devi pianificare la spedizione.

Il Denali, la montagna più alta dell’America settentrionale ed è la terza montagna in assoluto per dislivello, che è di 5400 metri.

L’input iniziale può partire da te o da un tuo compagno, e nel caso del Denali è stato Frans (Francesco Torre) che un bel giorno mi telefona e mi dice: «dai, facciamo il Denali con gli sci quest’anno? Partiamo a fine aprile prima che arrivi il mondo e arriviamo in cima. Venti giorni e ce la caviamo. Torniamo anche in tempo per la

dichiarazione dei redditi».

Già! La montagna, l’ascensione, la vetta… e poi il nostro cervello ci riporta giù e ci presenta il conto delle scadenze tributarie.

Però la pancia mi dice che è tempo di andare sul Denali. Che quest’anno è un buon anno per prendersi una pausa dalla quotidianità e dalle problematiche della gestione del negozio (Alby Sport a Novalesa, –TO-)   . Ne ho proprio bisogno! Nulla di epico. Solo il piacere di conoscere.

Lele (Emanuele Foglia guida alpina del gruppo Altox), giovane, pieno di entusiasmo e di energia decide di aggregarsi: è il compagno ideale.

Conosco bene il Sud America, il Cile, la Bolivia… ma l’AlaskaAh! l’Alaska! L’ultima frontiera. Scorrono nella mia mente le immagini del film “Into the wild”. Terra di contrasti, selvaggia, dove l’uomo misura i propri limiti attraverso la montagna, il freddo, il vento e la solitudine, la lontananza dalla civilizzazione.

Il Denali è l’unica montagna dove non sono né previsti né permessi i portatori; tutto deve essere “a carico” dei membri della spedizione. Tutto è basato solo sul gruppo che decide di affrontarla. E questo la rende unica. È la montagna più alta dell’America settentrionale ed è la terza montagna in assoluto per dislivello, che è di 5400 metri. Dal campo base sono 4200 m da superare e 60 km di distanza da coprire. Il tempo stimato per la salita è di 10 giorni, quello per la discesa di 3. Una montagna per molti, ma non per tutti.

Dobbiamo trascorrere 14 giorni in quota, senza appoggi, portandoci dietro tutta l’attrezzatura e il cibo per 3 settimane (quanto richiesto dalle leggi federali). Il che significa circa 70 kg a testa, 20 sulle spalle nello zaino e 50 sulla slitta (la pulka). Dobbiamo anche accettare il dato di fatto che, in caso di incidente, probabilmente nessuno ci verrà a cercare.

Per noi la dead line è scritta sul nostro permesso: 24 giugno. Fino a quel giorno nessun ranger muoverà un dito per cercarci. Dopo forse sì. Ma a quel punto avremo avuto di sicuro tutto il tempo per essere ibernati come si deve dal Denali.

I campi sono aree sicure ma dove non c’è nulla. Ti devi costruire la piazzola nella quale monterai la tenda, costruire i muri intorno alle tende per difenderti dal vento, che sferzerà violento, scavare nel ghiaccio buche che diventeranno la tua cucina ed il tuo bagno. Sarai solo con i tuoi compagni di spedizione. Noi siamo in tre: Frans, Lele ed io (Alby). E sul posto abbiamo trovato 2 svizzeri, Lucas e David, con cui abbiamo affrontato l’impresa.

L’aereo ci abbandona lì sul ghiacciaio East Forth Kahiltna. Nel momento esatto in cui lo vedi ridecollare e tu rimani lì, un puntino nel mare bianco sconfinato, pensi: «adesso sì che sono tutti cavoli nostri». Ti guardi intorno e inizi a percepire quanto il massiccio sia vasto e la meta lontana.

(Foto) Il velivolo utilizzato per il trasporto degli alpinisti sul ghiacciaio alle pendici del monte Denali: nel momento in cui si allontana, l’inquietudine cresce.

Fin dai primi spostamenti, la fatica svuota la mente. Sei consapevole che per molti giorni soffrirai il freddo, il vento, la fatica. Dubbi e paura giocano con i tuoi neuroni.

A più riprese ti si presenterà davanti l’idea della rinuncia. Si tratta sempre e solo di scegliere lucidamente e chiaramente se continuare o tornare indietro.

La dimensione del viaggio è una lente che deforma quel cambiamento interiore che ti accorgi essere già cominciato, fin dal primo passo. Non sarai più quello di prima quando tornerai. Ma sai anche che sei lì per arrivare in vetta, per raggiungere il tuo obiettivo.

I primi tre giorni il tempo è clemente e si sale relativamente poco. Le slitte si portano con facilità. Ai campi prendiamo confidenza con la costruzione di cucine in ghiaccio. Si tagliano con la sega grossi mattoni di ghiaccio e via a fare muretti, ripiani e ripari.

Rilevamenti delle condizioni meteo con strumentazioni tecnologiche d’avanguardia, essenziali per la sicuezza in quota.

Il quarto e quinto giorno rimaniamo bloccati al C3 a 3300 m dalla bufera. Dormire con -15 all’interno della tenda non è certo riposante.

Più si sale e più le pulke diventano un problema. Il massimo della difficoltà aguzza anche il massimo dell’ingegno. Tra C3 e C4 c’è  il MotorCycle Hill, un ripido tratto di oltre 300 m che con le slitte mette a dura prova. Ecco che vengono buone le tecniche di soccorso: con Lele attrezziamo una sosta, montiamo una carrucola con autobloccante, 60 metri di corda, saliamo e poi ci buttiamo giù con la corda a fare da contrappeso per far salire la pulka. Ci siamo portati praticamente tutto fino a C4, poi abbiamo capito di essere troppo pesanti e abbiamo iniziato a scaricare peso per l’ultimo tratto.

Per la spedizione vengono portati 70 kg a testa, 20 sulle spalle nello zaino e 50 sulla slitta (la pulka). Il tempo è clemente, si avanza con una certa agilità.

Mangiamo quasi sempre crudo e freddo: povero stomaco. I liofilizzati che ci siamo portati sono in buste di alluminio e dovrebbero essere pronti e caldi in 5 minuti aggiungendo acqua bollente… ma qui in 5 minuti l’acqua è già gelata …. Quando va bene sono solo 26 gradi sotto zero.

Arrivati a Campo 5 ci si veste subito con i tutoni. Non si resiste altrimenti. Di notte dentro la tenda si scende fino a -26 gradi. Piumino, maglione e berretto indossati. Si forma il ghiaccio persino dentro il sacco a pelo.

È il 12 maggio e partiamo dal C5 in due cordate, Lele si è legato a Lucas e Frans ed io. David non sta bene (mal di montagna) e dovrà rinunciare. Arriviamo in vetta alle 15,10 insieme a due giapponesi, marito e moglie. Ritorniamo al C5 alle 20 troppo stanchi per continuare e ci fermiamo a dormire.

Il Denali è l’unica montagna dove non sono né previsti né permessi i portatori; tutto deve essere “a carico” dei membri della spedizione. Tutto è basato solo sul gruppo che decide di affrontarla.

Il mattino seguente iniziamo il ritorno al C4, e durante il percorso si alza bufera, nebbia e vento fortissimo e nella nostra mente prende forma il pensiero che il Denali ci abbia concesso la sua ospitalità e regalato un sorriso. Abbiamo avuto la fortuna di cogliere la finestra giusta, infatti nelle settimane seguenti più nessuno è riuscito a salire. Al termine dell’impresa eravamo 3 delle 12 persone salite in vetta su 354 che avevano intrapreso la salita.

Torniamo al C3 il giorno successivo, e dopo aver calato le slitte con le corde legate insieme in modo da ottenere 100 metri di lunghezza, arriviamo a quello che era un piccolo campo intermedio ma che ormai si è quasi trasformato in luna park tante sono le tende con gente che urla, vocifera e si mostra tronfia.

Il 18 maggio, 21 giorni dopo la partenza, rientriamo a casa.

(In foto) Frans, Lele e Alberto Bologesi (Alby), protagonisti dell’impresa.

 

 

 

 

 

 

ALESSIO GIACHIN RICCA (Note biografiche) 

Ho iniziato come recensore di libri per una rivista d’arte; erano i tempi dell’università. Correva l’anno 1974.

In quel periodo eravamo un gruppo di giovani che si dilettava in cinematografia, teatro, racconti brevi, fotografia (ci sviluppavamo le fotografie), eravamo quello che si diceva “impegnati”. Solo cinema d’essai con relativa tavola rotonda con il regista, rappresentazioni teatrali “spesse”, lunghe disquisizioni sui grandi temi dell’umanità, una realtà molto ben descritta da Nanni Moretti in Ecce Bombo.

Nel contempo per mantenere un minimo di equilibrio frequentavo la montagna nelle sue varie forme.  Lo sci non era in pista o far le gare, ma la fatica e la ricerca, quindi sci-alpinismo, canalini, salite e discese su pendii sperduti e sconosciuti.

L’arrampicata libera e moderna ispirata da quelli del “Nuovo Mattino” nostri istruttori, il primo bouldering sul Masso Erratico di Casellette vicino a Torino, lunghi trekking per le valli; tutto quello che c’era di nuovo e sperimentale rientrava nella nostra ricerca.

Oggi mi dedico prevalentemente al freeride, passione mai sopita; scrivo per lavoro, per amicizia e per necessità, perché penso sia un metodo per strutturare meglio le proprie idee.